mercoledì 26 agosto 2015

Oggi, sul treno

Oggi, in stazione ferroviaria a Modena, ho avuto il raro onore di assistere ad un evento antropologico che merita di essere annotato per la sua peculiarità: due esseri umani, sconosciuti, intenti a parlare.
Ho potuto notare i due esemplari già sul binario, nell'attesa che arrivasse il treno. E' evidente che io abbia avuto molta fortuna: i due adulti di umano si trovavano a pochi metri da me e sembra che non si siano spaventati nel vedermi, per cui ho potuto studiarli senza turbare il delicato equilibrio dell'evento.
Dopo un'attenta e precisa osservazione dei due soggetti, ho potuto finalmente attribuire loro una nazionalità, trovando una piacevole rassicurazione nel poter etichettare in qualche maniera i due strani esemplari. Un senegalese e una moldava.
Lui, giovane, nerissimo, alto, robusto, un po' gobbo, con due grandi occhioni teneri; lei, bionda, con la carnagione chiara e la pelle sottile, magra, bassa, con gli occhi azzurri, ben dritta sulle sue spalle. Due così, che mai diresti possano avere l'ardire di scambiare una parola l'uno con l'altro, invece te li trovi lì, intenti a chiaccherare vivacemente. Un dialogo, sì. E anche vivace, sì.
Un dialogo. A voce. Guardandosi in faccia.
Senza mai tirare fuori il cellulare dalla tasca nel tentativo di sfuggire dalla scomodità di una reale conversazione.
Due esseri umani che non si conoscevano, che si sono semplicemente trovati vicini su un binario ad aspettare il mio stesso treno, provenienti da paesi completamente opposti, lontani, con due lingue diverse, e tuttavia uniti da qualcosa che forse noi fatichiamo a comprendere: il sacrificio.
Ascoltando i loro racconti sui rispettivi paesi d'origine mi sono sentita fiera del mio di paese, la mia Italia, culla di una lingua che aveva dato la possibilità a due stranieri così stranieri di dialogare tra loro. Di scambiarsi opinioni. Di condividere idee ed emozioni che non hanno nazionalità, ma che ci accomunano tutti. Li ho trovati deliziosi. Lei, con un accento che, inizialmente, nella mia ignoranza, avevo ritenuto "russo-o-giù-di-lì", lui, con un accento "africano-o-una-roba-del-genere", che parlavano degli stessi ideali, come fossero una stessa pianta con due radici lontanissime nel pianeta, che si era ritrovata ad essere cresciuta tanto da poter fare intrecciare i rami della sua chioma proprio lì, sul mio treno, a Modena.
Ancora una volta, infatti, sono stata fortunata, perché i due esemplari si sono seduti nei sedili opposti ai miei. Così che da un lato c'ero io e un anonimo signore italiano (del tipo che indossa le catenine e i bracciali d'oro, visto che ci sta piacendo attribuire etichette), in silenzio, a evitare di guardarci in faccia, e, dall'altro lato, questa esplosione di sincera umanità che, nella diversità, ha trovato una direzione comune. Mentre il signore delle catene d'oro si dibatteva con la tendina del finestrino, svolazzante ribelle, e mi lanciava occhiate di sottecchi per capire se lo stessi deridendo per la sua vana battaglia, io ho avuto modo di ascoltare il discorso dei due (immigrati) a fianco.
Entrambi sono in Italia a lavorare per un solo motivo: la famiglia. Entrambi sono qui, soli, coi figli e la famiglia in un amato paese lontano; sono qui a racimolare soldi nella speranza di garantire un futuro migliore ai figli e forse un po' di serenità ai loro cari. Questa è la loro forza e traspare dalle loro parole. La vedi anche nei loro sguardi, vivi e lucidi ma con quel velo di distrazione in fondo in fondo, che fa presumere che il loro pensiero non sia lì, non sia nel presente, ma che sia lontano centinaia di kilometri nello spazio e nel tempo, e che il loro cuore sia stato temporaneamente lasciato altrove per continuare a nutrire con affetto le persone amate.

Noi cosa ne sappiamo di tutto questo? Cosa ne sappiamo del sacrificio per la famiglia? O della sincera felicità semplicemente nel possedere una casa, un lavoro e un piatto caldo? Cosa sappiamo noi dell'accontentarsi per accontentare qualcun'altro, a cui si vuole bene?
Mi sono sentita in colpa. Non è la prima volta che faccio queste riflessioni, chiaramente, ma mai mi sono sentita tanto in colpa a nome di tutta la mia generazione e di quelle venute dopo. Per le lamentele, per i falsi bisogni, per le finte necessità, per l'abbondanza di cose inutili di cui ci circondiamo, nel dimenticarci invece delle poche cose importanti che contano davvero.
Proprio ora che l'argomento immigrazione è tanto discusso in Europa, dovremmo accorgerci della ricchezza che possiamo trarre da queste persone, andando al di là dell'istintiva paura che ci provoca la loro diversità. Hanno tantissimo da insegnarci se solo noi siamo disposti ad ascoltare.

Quando è stato il momento di scendere dal treno, non è stato il Don Chisciotte della catenina d'oro ad aprirmi la porta, né è stato lui ad aiutarmi con la valigia.
Il ragazzo gobbo con gli occhi teneri mi ha aperto la porta dicendomi "Prego" con un gran sorriso che mi pareva quasi irreale e, poco dopo, la signora magra con gli occhi azzurri mi ha offerto un aiuto per sollevare la valigia nel scendere dal treno.
Ma Don Chisciotte l'ho giustificato: probabile che la lotta contro la tendina a vento lo deve aver sfinito, altrimenti è sicuro che mi avrebbe aiutato, visto che lui sì che è un normalissimo essere umano, bianco, italiano, che evita gli sguardi, che ti guarda di nascosto e che si sventola ferocemente la mano addosso lamentandosi del caldo e delle angherie di una tendina profondamente ingiusta.

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